MURI, CONFINI e IDENTITÀ

Discipline: Religione, Italiano, Filosofia, Storia, Francese

Tempi: 22 ore

Destinatari: Classi quinte

Finalità e presentazione

Considerata la capacità con cui i fenomeni sociali, economici e politici si trasformano, la Scuola, nella sua azione quotidiana e concreta, ha il compito di garantire contesti educativi e di apprendimento indispensabili per promuovere democrazia, pace, inclusione, conoscenza di qualità.

In altre parole, la Scuola ha il compito di educare alla cittadinanza e lavorare per un futuro possibile per tutti, superando sfiducia, smarrimento, emarginazione ed esclusione.

Da qui l’esigenza di realizzare questa unità di apprendimento la cui finalità è quella di aiutare gli studenti a maturare consapevolezza del fatto che ognuno di loro e, più in generale, ogni persona che vive in uno Stato democratico è portatrice di diritti e di doveri, nonché coscienza del rapporto fondamentale che esiste tra democrazia, cittadinanza ed inclusione.

Nello specifico, per evitare la fuga dalla democrazia ed impedire che si possa pensare e poi affermare che per avere una buona democrazia sarebbe necessario che non ci fossero gli ‘stranieri’ o i ‘diversi’ da noi, riteniamo indispensabile favorire nei ragazzi la formazione di competenze che li mettano in grado di servirsi di corretti strumenti di indagine per riflettere sul concetto di cittadinanza, e in particolare di cittadinanza attiva, garanzia di comportamenti ispirati dal rispetto della legge e dall’etica pubblica. Infatti, se ogni individuo è un cittadino è protagonista della propria vita e la società che lo circonda è una democrazia che opera contro qualsiasi forma di diversità, etichettatura ed emarginazione. Da qui il passo è breve per sviluppare nei nostri allievi, una maggiore sensibilità verso i temi dell’inclusione e della cooperazione. Conoscere l’ ‘Altro’, accettarlo per quello che è, collaborare con lui, rispettare i diritti fondamentali di tutti sono le tappe ineliminabili per costruire, in ultimo, Identità e senso di appartenenza.

Obiettivi formativi

  • Maturare la capacità di operare scelte libere e responsabili
  • Comprendere il limite e la norma non semplicemente come ostacoli, ma come costitutivi della libertà
  • Valorizzare i confini identitari come possibilità di incontro dell’altro
  • Sviluppare l’interesse per la cittadinanza attiva e  l’impegno civile attraverso la conoscenza e la riflessione su contesti storici, geografici e culturali diversi dal proprio
  • Capacità di cooperazione e confronto costruttivi
  • Capacità di esprimere il proprio punto di vista e ascoltare e rispettare quello degli altri
  • Conoscenza delle più significative realtà geopolitiche della storia recente in Europa e Medio Oriente

Obiettivi cognitivi

  • Ragionare sul concetto di libertà
  • Comprendere la norma morale come confine indispensabile per il riconoscimento dell’altro e l’esercizio della libertà
  • Riflessione sul concetto di identità
  • Riflessione sulla distinzione tra concetto di confine e muro
  • Riflessione critica sul concetto di “frontiera” nelle varie fasi della storia degli Stati Uniti
  • Saper utilizzare fonti e materiali di diverso genere (Testi, materiale multimediale, film, ecc…)

Descrizione delle attività

Fase Obiettivo Discipli
ne
Descrizione dell’attività Organizz
azione
Risorse
(materiali,
mezzi)
Metodi Tempi
1a Ragionare sul concetto di libertà Filosofia/Religione

(opzione di compresenza dei docenti)

Discussione orientata, partendo da uno spunto o da una frase sul concetto di libertà di muoversi confrontandosi con degli ostacoli, attraversare delle soglie, affrontare la scelta gruppo classe Visione e commento di due video e utilizzo di carte del gioco DIXIT Visione dei video e  discussione orientata 1h
1b Ragionare sul concetto di libertà Filosofia/Religione

(opzione di compresenza dei docenti)

Discussione orientata, partendo da uno spunto o da una frase sul concetto di libertà di  muoversi confrontandosi con degli ostacoli, attraversare delle soglie, affrontare la scelta

Spunto di riflessione proposto dall’insegnante: Il deserto e la montagna nell’Esodo.

gruppo classe Testo Kierkegaard

“Aut Aut” e “Timore e Tremore”

e altri (Bahrier…)

Intervista con domande mirate agli studenti per stimolare la   discussione e l’elaborazione di riflessioni personali 2h
2a Rilevare le competenze spontanee degli allievi sul funzionamento della scelta morale (scelta come discrimine) Religione Gioco interattivo dell’Ixland Individuale,

piccoli gruppi

Gioco interattivo Gioco interattivo 2h
2b Comprendere la norma morale come confine indispensabile per il riconoscimento dell’altro e l’esercizio della libertà Religione Ripresa della fase 0 e 1. Discussione sui valori odierni universali/individuali.

Lezione sulla nascita e storicizzazione della legge.

Esemplificazioni

Piccoli gruppi e gruppo classe Fogli Discussione orientata 1h
3a Riflessione sul concetto di identità Italiano Analisi e confronto di testi poetici gruppo classe Poesie di Ungaretti e  Pavese Lavoro di gruppo 2h
3b Riflessione sulla distinzione tra concetto di confine e muro Francese, Storia e Filosofia; Scienze Umane e Italiano Lettura, comprensione analisi e discussione  di alcune parti del testo e ascolto di canzone gruppo classe Saggio di Regis Debray “Eloge de frontieres”;  Canzone Jovanotti Analisi e discussione orientata 2h
3c Riflessione sulla distinzione tra concetto di confine e muro Italiano Comprensione e analisi di testi argomentativi, documenti per la produzione di un saggio breve Gruppo classe Testi, articoli d’opinione e letterari 2h
4a Conoscenza della realtà geopolitica Storia Analisi della mappa dei muri storici gruppo classe Film “Il Giardino dei Limoni” Lezione e analisi 2h
4b Conoscenza della realtà geopolitica Storia Analisi della mappa dei muri storici gruppo classe Mappe online muri di oggi ;Foto di Rai Storia”Un mondo diviso” Lezione e analisi 2h
4c Conoscenza della realtà geopolitica Filosofia, Italiano e Storia, Scienze Umane Analisi della mappa dei muri storici gruppo classe Video  Rai Storia”Guerre di Confine”;  Video  Rai Storia”Muri, un mondo diviso”; Consigliare visione a casa del Film “Good Bye Lenin” Lezione e analisi 2h
5a Riflessione critica sul concetto di frontiera nelle varie fasi storiche Inglese Analisi sul concetto di identità americana, sul concetto di libertà intesa come sociale e politica (riferito alle migrazioni dall’Europa all’America a partire dal XVIII Secolo) Gruppo classe Testo “Letters of an American farmer” de John De Crevecoeur Discussione guidata e lettura del testo 1h
5b Riflessione critica sul concetto di frontiera nelle varie fasi storiche Inglese Analisi sul concetto di mito dell’America e della frontiera Scheda The myth of America Discussione guidata e lettura del testo 1h
5c Riflessione critica sul concetto di frontiera nelle varie fasi storiche Inglese Analisi del testo sul  paradosso della frontiera (scontro di libertà tra nativi americani e nuovi coloni) e ascolto canzone Gruppo classe Testo Bury My Heart (https://it.wikipedia.org/wiki/Seppellite_il_mio_cuore_a_Wounded_Knee)  e laboratorio in classe e canzone De Andre Discussione guidata e lettura del testo/ Lavoro di gruppo 2h

Allegati

Gioco interattivo – Ixland

L’Ixland è venuta a trovarsi coinvolta in una guerra nucleare. Otto persone si trovano in un rifugio antiatomico capaci di ospitare al massimo cinque persone per un anno di necessario isolamento. Non si conoscono altri rifugi cha abbiano resistito all’attacco nucleare. Il problema è di decidere quali tre persone debbano abbandonare il rifugio affinché le altre cinque persone possano.


Poni una più ( + ) davanti alla persona nel gruppo per la quale hai deciso che può rimanere in vita nel rifugio e poni uno zero ( 0 ) davanti ai nomi delle persone per le quali hai deciso che devono abbandonare il rifugio.

  1. Signora Ratti: bianca, protestante, buona salute ha finito l’università, lavora in casa. In stato di shock per aver perso la famiglia.
  2. Dott. Opezzo: medico generico, italo-spagnolo, cattolico, salute pessima.
  3. Signorina Gadi: nera, mussulmana, salute discreta, dedita alla droga, infermiera diplomata.
  4. Signorina Nadia: di madre indiana e padre italiano, religione indù, buona salute.
  5. Signor Lynn: bianco, protestante, buona salute, ha finito le scuole professionali, appena uscito di prigione.
  6. Signor Scott: nero, ateo, ottima salute, professore di filosofia all’università, comunista.
  7. Signorina Rodelli: bianca, agnostica, buona salute, ha superato gli esami di maturità, prostituta, incinta.
  8. Padre Tommaso: bianco, prete cattolico, buona salute, di aperte vedute.

Percorso letterario – Poesie

Nemico e/è straniero.

Proposte didattiche per un percorso letterario

Una nuova didattica: letteratura e intercultura

La frequente e costante immigrazione nel nostro paese ha recato in sé molteplici implicazioni, tra cui la metamorfosi del rapporto scuola-società. E’ preparata la scuola italiana ad affrontare questo mutamento? E quali strumenti possono essere utilizzati per formare studenti aperti e disponibili al dialogo con altre culture?

“L’educazione interculturale non è infatti, e non può essere, una nuova disciplina ma una modalità di approccio che si fonda sull’acquisizione di un habitus mentale capace di allargare la propria visione del mondo: è un modo di leggere, o di rileggere, contenuti antichi e attuali.” [1]

I frequenti episodi di cronaca nera, portatori, più o meno inconsapevoli, del germe della xenofobia, non aiutano di certo i nostri studenti ad approfondire i rapporti con gli ormai numerosi compagni stranieri. Diventa, allora, indispensabile la conoscenza delle altre culture tramite la discussione, il dialogo, la riflessione: in questo senso, la letteratura rappresenta un efficace canale di comunicazione.

Prima che il volto dello straniero assuma nell’immaginario collettivo – e di conseguenza in quello giovanile – le sembianze dell’operaio sottopagato che ruba lavoro agli italiani, del pusher che ruba vite agli angoli delle strade, del nemico venuto da chissà dove a rubare la nostra identità, è dovere della scuola attivare percorsi d’indagine e di recupero della memoria del proprio passato, soprattutto se in esso vi sono affinità sul piano delle problematiche storiche, sociali ed economiche con situazioni attuali.

Percorsi didattici incentrati sul racconto di storie, di storie di uomini (perché non c’è mai stato un popolo che non abbia avuto almeno una storia da raccontare) possono acquistare il valore di interventi interculturali. Storie di tutti, antiche e recenti, vicine e lontane, che, superando i confini geo – politici e le barriere culturali, mettano i nostri studenti nella condizione di capire e di capirsi, nella logica speculare del conoscere l’altro per conoscere sé stessi. Voci letterarie nazionali, internazionali, sovranazionali che inducano a “conoscersi per amarsi, ma [anche ad] amarsi per conoscersi”. [2]

La letteratura diventa così veicolo di conoscenza tra culture, tra popoli, tra studenti che, distanti per luoghi d’origine, possono incontrarsi e scoprirsi più vicini nell’universo letterario. Una reintepretazione della letteratura, come momento conoscitivo essenziale della diversità, dei suoi modi e dei suoi tratti.

In tal senso è fondamentale promuovere percorsi interculturali sin dall’ingresso nel mondo della scuola, abituare da subito, quando forse preconcetti e modelli culturali sono meno radicati, al confronto con l’altro, attraverso i diversi modi del narrare. Non vi è alcuna garanzia che lo scontro sociale sarà evitato, ma che dal confronto culturale scaturiranno il rispetto reciproco e la disponibilità verso l’altro, di questo si fa garante la letteratura.

Il percorso tematico proposto

sez. a. L’espatriato che ritorna:

– G. Pascoli, Italy

– C. Pavese, I mari del Sud

sez. b. L’intellettuale alla ricerca della propria identità:

– D. Campana, Viaggio a Montevideo

– G. Ungaretti, Girovago; Silenzio; Fase; Levante

Un percorso tematico sulla figura dello straniero può essere considerato intervento interculturale non solo quando promuove, negli studenti, l’interesse per letture e per la conoscenza dell’altro, ma anche quando l’apertura verso nuovi orizzonti mentali parte da voci familiari, da espressioni letterarie di ambito nazionale.

Percorsi che danno voce ad autori dai nomi difficili, irripetibili, che ci parlano di altri mondi o che, più recentemente, parlano di noi, del nostro paese, così come appare agli occhi di chi in questo paese, per un motivo o per un altro, è costretto a trasferirsi, possono favorire la conoscenza di letterature poco o affatto note, ampliare gli orizzonti culturali, aiutare a comprendere questioni di fondo relative al mondo attuale. La costruzione di uno “scaffale multiculturale”, al centro di dibattiti sui temi del multiculturalismo e l’integrazione culturale, caldeggiato dalle stesse istituzioni, rappresenta un valido strumento per promuovere la reciproca conoscenza fra le culture e la comprensione della diversità.

Percorsi che danno voce al proprio patrimonio letterario, che contribuiscono alla conoscenza di sé stessi e a mantenere viva la memoria del passato, possono anch’essi favorire la comprensione dell’altro, delle sue necessità e del suo mondo.

Il fattore comune: lo straniero. O meglio, la rappresentazione dello straniero nelle letterature degli altri come nella nostra. Il concetto di straniero porta in sé una forte e ambivalente carica ideologica: se da un lato troviamo, incontriamo ostilità e negatività nei giudizi che gli vengono assegnati, nei modi come nelle caratteristiche fisiche, dall’altro è facile imbattersi in espressione di emulazione e assimilazione. La forza di questa ambiguità si riflette nella semantica, dove ritroviamo una situazione ugualmente contraddittoria nei termini che contraddistinguono lo straniero. Quest’ambiguità è rintracciabile nelle lingue moderne europee: basti pensare alle coppie corrispondenti di termini straniero/strano in italiano, étranger/étrange in francese, stranger/strange in inglese, Fremder/fremd in tedesco. [3]

Prima ancora di assurgere al ruolo di grande protagonista della letteratura di tutti i tempi, di miti e di fiabe, lo straniero costituisce una categoria sociologica: essere straniero è condizione propria dell’esistere, un modello culturale presente nell’immaginario di tutte le comunità. Lo straniero è da sempre il termine di paragone di ciascun popolo, ciascuno di noi è lo straniero di qualcun altro, perché straniero è condizione esistenziale propria di chi viene a contatto con una società diversa da quella di appartenenza. Il posto e i tratti assegnati a questa figura mutano a seconda del processo di formazione dell’identità della stessa comunità: ci sono comunità più eterogenee e disponibili verso l’altro e comunità umane più compatte, chiuse in sé, che rifiutano gli stranieri relegandoli nella loro diversità, come comunità deboli, che si sentono attaccabili e indifese, che caricano lo straniero di valenze negative.

E’ la collettività che produce le immagini e gli stereotipi dello straniero, grazie anche alla letteratura che contribuisce alla diffusione e alla loro trasformazione in cliché culturali (si pensi ai protagonisti di grandi opere classiche come l’Odissea e la tragedia di Euripide, lo straniero Ulisse e la straniera Medea). La letteratura, rispetto alla creazione di modelli culturali, ha avuto un doppio ruolo, contribuendo in certi casi alla diffusione di valori negativi e differenzianti (lo straniero come il personaggio dai lati oscuri e diabolici, di derivazione fiabesca), in altri nel tentativo di smontare questi cliché ha dato vita a un’ampia varietà di temi letterari (il viaggio, lo sradicamento, l’estraneità alla vita, e tanti altri).

L’espressione letteraria altro non è allora che il riflesso del modello culturale introiettato e la codificazione di tutta una gamma di figure indicative dei modi diversi di essere straniero, che possono variare nello spazio, ma anche nel tempo. Schiavo, barbaro, ospite nel mondo antico; pellegrino, mercante, viaggiatore, colonizzato/colonizzatore nel Medioevo e nel mondo moderno; esule, profugo, clandestino, immigrato, turista nel mondo contemporaneo.

Ricercare le forme della diversità a partire dal passato, comporta dunque una duplice potenzialità didattica: l’una legata all’esigenza di riproporre il passato come sistema dinamico di valori e funzionale alla lettura del presente, l’altra alla necessità di recuperare la propria genealogia culturale. Conoscere e capire lo sviluppo della propria tradizione culturale è il prerequisito essenziale per la conoscenza e il confronto con culture diverse.

Restringendo il campo d’indagine agli elementi che definiscono lo straniero nella letteratura italiana del primo Novecento, ci imbattiamo in una tipologia di figure che si prestano ad un percorso interculturale e che corrispondono al paradigma di tratti dell’ “espatriato che ritorna” e dell’intellettuale alla ricerca della propria identità.

sez. a. L’ “espatriato che ritorna”

Un percorso tematico incentrato sulla figura dell’ “espatriato che ritorna” soddisfa più esigenze didattiche: in generale, far maturare nello studente l’abilità dello studio delle discipline curriculari mediante nuclei tematici; nello specifico, mettere lo studente a conoscenza degli elementi che definiscono la figura dello straniero nella cultura letteraria italiana della prima del Novecento; nell’ottica di un intervento interculturale, metter a disposizione dello studente gli strumenti per confrontare la vicenda dell’emigrazione italiana (dal 1876 al 1976 sono emigrati più di ventisette milioni di italiani) con gli esodi dei nostri giorni, per non dimenticare che un giorno gli albanesi eravamo noi. [4]

Testo 1

Italy, Primi Poemetti. L’ “espatriato che ritorna” è la famiglia di contadini della Garfagnana, emigrati da anni in America, che fa ritorno al paese d’origine, a Caprona nei pressi di Castelvecchio, protagonista del poemetto Italy (1904) di Giovanni Pascoli: alle vicende di questa famiglia – la malattia della piccola Molly, le difficoltà economiche – Giovanni Pascoli s’interessò personalmente.

Al di là delle motivazioni ideologiche che ispirarono l’autore, il testo di Italy consente di analizzare e comprendere il dramma dell’emigrazione italiana del primo Novecento.

La storia ha un significato simbolico: il ritorno al nido, all’antico casolare, dona agli emigranti la salute (Molly guarirà dalla tisi grazie al clima mite della campagna toscana) e la felicità perdute lontano dalla patria. Pascoli lo dedicò a tutti coloro che a centinaia, a migliaia lasciavano l’Italia ogni anno, diretti in gran parte oltre Atlantico: sacro all’Italia raminga, recita l’epigrafe che precede il testo.

Da questo più ampio contesto storico, si snoda la trama: la guarigione della piccola Maria (Molly in inglese), arrivata malaticcia in Italia, la morte della vecchia nonna, il ritorno degli emigrati in America.

Leggi il testo di Pascoli

Analisi, metodi e strumenti. Di questo lungo componimento (diviso in due canti, per 450 versi complessivi), si può offrire una lettura completa o analizzare alcune sezioni: le antologie scolastiche riportano generalmente una riduzione del testo. Suggeriamo le sezioni III – VI del primo canto: in esse è descritto il ricongiungimento degli emigranti con la madre (la nonna di Molly), le impressioni che la bambina ha del paese a lei straniero, l’incontro con i paesani che chiedono notizie dei loro cari emigrati.

Il dramma dell’emigrazione italiana, fenomeno di cui Pascoli fu tra i pochi letterati a comprendere l’importanza storica, rivive nell’esperienza di Molly: nata in America, parla solo l’inglese e non riconosce l’Italia come il suo paese. In effetti, nel rapporto tra la nipotina e la nonna, che parlano due lingue sconosciute l’una a l’altra e stentano a capirsi, si riassume l’estraneità e la distanza tra il vecchio e il nuovo mondo, tra la vita contadina ancorata al suo patrimonio di valori e la vita nelle metropoli, frenetica e incomprensibile, incubo dei nostri emigrati che, come “vu cumprà” ante litteram, si aggiravano per le strade, di giorno di notte, col freddo e la pioggia, al grido Will you buy. Ma nell’incontro fra questi due mondi, così distanti e diversi, non c’è solo la solidale rappresentazione dello spaesamento, della solitudine dell’emigrato condannato ad andare per “terre ignote con un grido / straniero in bocca” (Will you buy, appunto), che sogna di poter tornare a casa, un giorno, e con il gruzzolo risparmiato acquistare “un campettino da vangare, un nido / da riposare”, ma c’è soprattutto l’auspicio che l’Italia, l’antica madre, possa un giorno riscattare i suoi figli dispersi, recuperare al suo seno le migliaia di italiani costretti ad emigrare alla ricerca di forme di sostentamento (prima espressione di quel processo che indirizzerà l’umanitarismo di Pascoli verso un più generico nazionalismo e che sfocerà, di lì a poco, nel discorso La grande proletaria si è mossa – 21 novembre 1911).

L’analisi di Italy può svolgersi su due piani: l’analisi del tema, l’attenzione dell’autore verso un problema sociale del suo tempo; l’analisi delle forme, lo sperimentalismo linguistico di cui l’autore fa sfoggio. D’Annunzio parlò al riguardo di “virtuosismo linguistico” ed ebbe a complimentarsene.

In Italy assistiamo a un vero impasto linguistico, che apparve “scandaloso” (secondo Benedetto Croce) a chi lo misurava con la norma della tradizione letteraria italiana. Il testo è costituito da battute di discorso diretto, i dialoghi si svolgono in più lingue. E’ possibile individuare quattro livelli linguistici:

– la lingua della poesia, che realisticamente rende l’umiltà dei personaggi e della loro condizione (I muri grezzi apparvero col banco / vecchio e la vecchia tavola di noce, III 58-59) ma allo stesso tempo non esenta da finezze letterarie (Il tramontano discendea con sordi / brontoli, V 119-120);

– i dialettalismi lucchesi (nieva per nevica, IV 98, scianto per riposo, V 106, mugliava per muggiva, V 107);

– la lingua straniera, l’inglese di Molly

– la lingua speciale ovvero il mix italoamericano degli emigranti (bisini per business; fruttistendo per fruit-stand; checche per cakes; candi per candy; scrima per icecream, V 113-114)

Un’operazione davvero scandalosa se si considera che Pascoli, oltre a fondere lingue diverse, trasgredisce la norma del linguaggio poetico istituzionale creando rime tra inglese e italiano (febbraio con Ohio I 1 e3; luì con Italy III 73 e 75; gelo con yellow VI 138 e 140; tossì con Italy VI 148 e 150). Non si tratta esclusivamente di quella “magia pratica”, della “destrezza […] infallibile”, dell’attitudine a giocolare con la metrica che tra i primi D’Annunzio riconobbe all’autore: l’impasto linguistico, ricercato da Pascoli, riflette la contaminazione culturale dell’emigrato, “quell’intima lacerazione, quel doloroso offuscarsi della voce e del sentimento della terra natale” (Getto) che si produce in chi si trova in una situazione di emigrazione. Pascoli, pioniere, introduce nel linguaggio poetico quella contaminazione di lingue che è sempre di più un aspetto del mondo contemporaneo.

Testo 2

I mari del Sud, Lavorare stanca. L’ “espatriato che ritorna” è il cugino di Cesare Pavese ne I mari del Sud che, dopo aver a lungo viaggiato ed essere stato nei quattro angoli del mondo, fa ritorno alle Langhe, e gli confida: “quando si torna, come me a quarant’anni / si trova tutto nuovo”.

Come Pavese stesso dichiarò: “I Mari del Sud […] è […] il primo tentativo di poesia-racconto e giustifica questo duplice termine in quanto oggettivo sviluppo di casi, sobriamente e quindi […] fantasticamente esposto”. Con questo componimento (datato 7-14 dicembre 1930) si apre la raccolta Lavorare stanca che avrebbe più appropriata collocazione, secondo Mengaldo, “entro un filone anti-ermetico o in genere anti-novecentista di poesia” piuttosto che nella poesia del Neorealismo, come buona parte della critica ha da sempre decretato. Le poesie di “Lavorare stanca [sono] short stories chiuse e tetre di personaggi tipizzati” (la campagna e la città, i contadini, i paesani, le ragazze esili e bionde, e così via). [5]

Ma va sottolineato come, in apertura del suo primo libro, s’incontri un tema, una figura ricorrente nell’opera di Cesare Pavese: l’ “espatriato che ritorna”, colui che si è sradicato dal proprio mondo, ha viaggiato in lungo e in largo, magari ha fatto fortuna, ma prima o poi ritorna ai propri luoghi e cerca un recupero del passato infantile, dal protagonista di questa prima lirica a quello dell’ultimo romanzo: Anguilla. E proprio lui, Anguilla, protagonista dell’ultimo romanzo La luna e i falò, dichiarerà: “un paese vuol dire non essere soli”, dove “paese” è l’unico antidoto alla condizione della solitudine, all’impossibilità di dialogare con gli altri, un po’ come il nido di Pascoli, che restituisce sanità e felicità a chi ha sofferto per la lontananza e per l’esilio.

Leggi il testo di Pavese

Analisi, metodi e strumenti. Intravediamo due modalità di lavoro: a) sviluppare un modulo “autore” e leggere I mari del Sud seguendo lo sviluppo diacronico dell’opera di Pavese (l’esperienza dello sradicamento e il bisogno del ritorno, da Lavorare stanca a La luna e i falò); b) analizzare il testo mettendo in evidenza i momenti di intertestualità del tema portante (l’ “espatriato che ritorna”, da Pascoli a Pavese).

Nell’ipotesi di scegliere la seconda modalità, il lavoro consisterà nell’esplorare tra le righe il tema/guida del percorso, nella ricerca di analogie e variazioni.

Le analogie.

– Il disorientamento di chi lascia il proprio paese e, al ritorno ai propri luoghi, sente di non potergli appartenere mai più. Maria/Molly recupera le sue origini e la salute, il cugino di Pavese recupera le Langhe e il suo passato infantile: la prima, però, che non conosce nemmeno l’italiano (dato, tra l’altro, poco realistico), ritorna in America; il secondo, che pure apprezza la primordialità e la staticità della vita di paese, non si riconosce più in quella comunità e della gente delle Langhe dice: “Dovevo sapere / che qui buoi e persone son tutta una razza”. Troppo ha viaggiato che “anche nel divertimento non si è mantenuto fedele alla terra d’origine” (Guglielminetti) e progetta, fatto inaudito per le Langhe, un cartellone pubblicitario per la festa del patrono (cfr. vv. 81-83)

– L’impasto linguistico, di cui Pascoli dà mirabile prova in Italy, ritorna, scevro della sua virtuosa attitudine di sperimentatore, nell’uso del dialetto intrecciato alla parola colta, il gergo torinese o piemontese, “il lento dialetto” del cugino che ritorna (ci fece riuscire un garage di cemento, v. 60; e che la dicano, v. 83) assieme alla “rabbiosa passione per Shakespeare e altri elisabettiani”. [6]

Le differenze.

– Gli emigrati che ritornano a Caprona hanno oramai perduto la loro lingua madre, non parlano più l’italiano ma non parlano nemmeno americano: dall’incontro di culture, nasce un mix linguistico in cui Pascoli riassume il dramma dell’emigrazione. Il cugino che ritorna, invece, nonostante i “vent’anni di idiomi e di oceani diversi”, nonostante gli anni in giro per il mondo e a contatto con lingue diverse, continua ad adoperare “il lento dialetto” che, come le Langhe, non perderà mai.

Italy si connota di implicazioni ideologico-politiche, nasce dall’interesse dell’autore per il fenomeno dell’emigrazione; ne I mari del Sud, al di là del tentativo di ancorarsi a una esperienza concreta e di porsi in posizione antitetica al lirismo tipico della poesia ermetica contemporanea, Pavese sembra prescindere dal dato realistico e su questa realtà avvia un processo di tipizzazione. Il senso di sradicamento e di solitudine del cugino come esperienza tipica dell’esistere.

sez. b. L’intellettuale alla ricerca della propria identità.

Melting pot, crogiuolo di culture.

L’intellettuale è come l’esule moderno definito da Todorov: è un essere che “ha perduto la patria senza acquistarne un’altra, uno che vive di una doppia esteriorità”. L’intellettuale moderno ha spesso intrapreso, per motivi personali, politici, culturali, viaggi che lo hanno condotto lontano dal contesto di appartenenza; egli ha spesso più culture di riferimento, sebbene distanti tra loro.

Il ruolo tradizionalmente attribuito agli intellettuali europei è molto diverso in altri contesti: gli scrittori dell’America Latina, come ritiene M. Scorza, assumono presso la società una funzione oracolare, di guida, e producono una letteratura che partecipa all’azione. Chinua Achebe, scrittore nigeriano, assegna alla letteratura il compito di mediare tra la tradizione scritta e quella orale: la narrazione ha così sia compiti didattici che estetici. Secondo Chinua Achebe, “Il mondo è una Maschera che danza, e per vederlo bene non si può rimanere fermi nello stesso luogo”.

La funzione dell’intellettuale sarebbe quella di conoscere e far conoscere il mondo. Il viaggio ha sovente portato l’intellettuale in terre remote, alla ricerca dell’altro, alla ricerca di stesso.

Due opposte tendenze percorrono la cultura contemporanea: da un alto, la globalizzazione, l’universalità, l’abbattimento dei vecchi confini; dall’altro, la creazione di nuovi confini. Un percorso didattico incentrato sul tema dell’intellettuale alla ricerca della propria identità ha innanzitutto l’obiettivo di educare gli studenti a prestare attenzione verso fenomeni complessi, che si determinano nell’incontro fra culture, e a imparare a leggerli. La letteratura ha sempre escogitato il modo per raggirare le frontiere e l’intellettuale, che conosce più culture, diviene un efficace esempio di mediazione e scambio culturale.

Testo 3

Viaggio a Montevideo. Canti Orfici. Dino Campana era animato da un’incoercibile brama di viaggiare, una vera e propria “mania di vagabondaggio”. Egli stesso ce ne lascia testimonianza: “Facevo tanti mestieri … di gaucho, di carbonaio, di minatore, di poliziotto, di zingaro … di tenitore di tiro al bersaglio, di suonatore di organetto. Sono stato a Odessa. M’imbarcai come fuochista, poi mi fermai ad Odessa. Vendevo le stelle filanti nelle fiere … Varie lingue le conoscevo bene”.

Il viaggio in sud America è il referente memoriale da cui scaturisce questa poesia (da Canti Orfici, 1914). Interrotti gli studi universitari e dopo un primo ricovero in manicomio, Campana comincia una vita da nomade (tra il 1907 e il 1908) che comprende un viaggio nell’America del Sud.

L’esperienza biografica è quindi alla base di Viaggio a Montevideo, comunemente considerata la più alta prova poetica di Dino Campana e per le innovazioni formali un esempio quasi isolato nel panorama lirico italiano. Il viaggio verso l’Uruguay è descritto con eccezionale tensione “visiva”: scorrono sotto lo sguardo spettacoli emblematici, i colli di Spagna svanire dal ponte della nave nel “crepuscolo d’oro”, le tenebre, i silenzi, e poi l’apparire “nella luce incantata / una bianca città addormentata” (probabile riferimento alla sosta della nave a Capoverde), e poi ancora il mare solitario e immenso fino all’approdo nella “capitale marina” del nuovo continente, “tra il mare giallo e le dune”.

Montale ha parlato acutamente di una “poesia in fuga … che si disfà sempre sul punto di concludere”: queste strutture, aperte e dinamiche, sono coerenti con i motivi campaniani del viaggio, della ricerca esistenziale, della tensione per l’avventura

Leggi il testo di Campana

Analisi, metodi e strumenti. Il testo di Viaggio a Montevideo si presta a più livelli di indagine: analisi delle implicazioni storico-sociali (per anni, dagli inizi del Novecento, il sud America è stato meta dei “viaggi della speranza” che i nostri connazionali intraprendevano in cerca di fortuna); riflessione sul tema letterario del viaggio come condizione dell’esistere; ricerca di elementi di sintesi culturale e di apertura al diverso.

Il tema del viaggio in Campana assume una duplice valenza. Da un lato è esperienza biografica dello scrittore, dall’altro è condizione esistenziale intesa come ansia di evasione, come ricerca di nuove orizzonti culturali. Motivo già presente nei versi di Baudelaire, di Rimbaud, di Mallarmé, i poeti maledetti, e Campana è davvero l’unico maudit italiano. Versi come “Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave / già cieca varcando battendo la tenebra … sul mare” ricorda le notazione suggestive, l’espressione per inversione sintattica della lirica di Mallarmé, che come Campana era sensibile al motivo del viaggio liberatorio verso altri paesi lontani.

Non è forse l’intellettuale moderno l’ interprete di più culture? I versi, forse di un “matto e solo matto” che “è stato scambiato da molti per un vero poeta” (Saba), di un autore preletterario come è parso a molti, tradiscono un’apertura verso i nuovi mondi, che l’intellettuale può e deve trasmettere. “Le gravi matrone di Spagna”, che a un certo punto entrano a far parte del viaggio, si oppongono alla “fanciulla della razza nuova” che Campana scorge “sì presso sul cassero”: ma non è un confronto tra positivo e negativo, solo la comprensione della diversità tra il vecchio e il nuovo mondo, tra le matrone “dai seni gravidi di vertigine” e la fanciulla “bronzina”, mulatta.

Un paesaggio diverso e selvaggio suggestiona Campana, ma qualcosa accomuna il vecchio e il nuovo: sulla “riva selvaggia” si intravedono “cavalle vertiginose”, che come i “seni gravidi” danno una sensazione di smarrimento. L’antico si è sostituito al nuovo ma la percezione del mondo resta invariabile.

Testo 4

Girovago, Silenzio, Fase, Levante. L’Allegria. Il tema dell’intellettuale, che viaggia alla ricerca della propria identità, è espresso a chiare lettere nei versi di Girovago di Giuseppe Ungaretti (“In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare … E me ne stacco sempre / straniero”) come nelle parole di commento dello stesso Ungaretti: “Questa poesia, composta in Francia, dov’ero stato trasferito con il mio reggimento, insiste sull’emozione che provo quando ho coscienza di non appartenere a un particolare luogo o tempo. Indica anche un altro dei miei temi, quello dell’innocenza, della quale l’uomo invano cerca traccia in sé o negli altri sulla terra”. [7]

Le liriche Silenzio, Levante, Fase (come Girovago, dall’edizione definitiva del 1942) nascono dalla stessa esperienza biografica (l’abbandono di Alessandria d’Egitto, città natale del poeta): in esse torna il tema del viaggio, come conoscenza, come memoria, come riscoperta di sé nell’altrove, uno dei temi paradigmatici dello straniero.

Leggi i testi di Ungaretti

Analisi, metodi e strumenti. All’esperienza del viaggio per conoscere e per ri-conoscersi, si affianca in queste liriche il motivo del viaggio per mare.

Il tema proposto può essere considerato il filo conduttore che conduce lo studente nella sincronia e nella diacronia della letteratura. Ciascuno dei moduli proposti può essere svolto autonomamente. Da Pascoli a Ungaretti è possibile, però, costruire un unico percorso, col rischio, forse, di perderne talvolta il filo. Ma riflettiamo.Un bastimento (il mezzo che consentiva viaggi in terre lontane agli inizi del Novecento) porta Ungaretti, in Levante (“A poppa emigranti soriani ballano / A prua un giovane è solo) e in Silenzio (“Dal bastimento / verniciato di bianco / ho visto / la mia città sparire”), alla scoperta delle proprie radici; un bastimento “traghetta” Campana oltreoceano, in Uruguay, nel vano tentativo di saziare la sua tensione verso altri luoghi e altri spazi. A bordo di un “legno olandese”, il cugino di Pavese solcava I mari del Sud, incrociando balene e mostruose creature. A bordo di un bastimento, chissà, il Mauritania, milioni di italiani lasciarono il loro paese alla volta di una nuova vita. Dalla letteratura alla storia, e viceversa. La trama può apparire fitta e complessa, ma si riconoscerà che il “punto” è uno e uno solo: il lungo viaggio dello straniero.

[tratto da www.griseldaonline.it]

Elogio dei confini

Al cuore della pace ci sono le frontiere. Quando queste mancano si alzano muri e barriere

(Ben Jalloun in L’Espresso 10 dicembre 2010)

Chi prima chi dopo, tutti hanno decantato un mondo senza frontiere, idea liberale che si è fatta strada prima in Francia e poi in Europa dopo la rivoluzione del maggio 1968. Allora si moltiplicarono slogan del tipo “Vietato vietare”, oppure, “Niente è impossibile, immaginazione al potere”. Di colpo, l’idea di abolire le frontiere tra i popoli diventò un’utopia che la pubblicità ha fatto subito sua. Un’agenzia di viaggi scelse di chiamarsi Senza frontiere, e nacquero associazioni umanitarie denominate in modo analogo, per esempio Medici senza frontiere.

L’immagine di un pianeta senza frontiere è affascinante. Quando una casa non ha più porte, però, vi entrano parimenti il bello e il brutto, il pulito e lo sporco, il ladro e il santo. Da qui il concetto molto chiaro di confine. Il filosofo francese Régis Debray ha appena pubblicato un manifesto nel quale fa l'”Elogio delle frontiere” (edizioni Gallimard). A prima vista, c’è di che restare sbalorditi: come è possibile che questo spirito così intelligente, impegnato e umano difenda i confini e i portoni? Dopo aver letto il libro, in ogni caso, si comprende meglio la sua idea di fondo, che è sintetizzabile in poche righe: “La frontiera è da intendersi come un vaccino contro l’epidemia di muri, come un rimedio all’indifferenza e una salvaguardia dei vivi”.

Vien fatto di pensare a quei conflitti che si protraggono da tanto tempo, che hanno per motivo scatenante o obiettivo il semplice fatto di tracciare delle frontiere. Questo è il caso dell’interminabile conflitto, sempre più aggrovigliato, tra Israele e Palestina. Se ci fossero delle frontiere, vorrebbe dire che esiste uno Stato, un Paese riconosciuto nei suoi confini. Il problema ricorrente di questo conflitto, tuttavia, è proprio che Israele non vuole che i palestinesi abbiano frontiere, in altre parole uno Stato. Régis Debray cita Uri Avnery, il militante israeliano di Pace adesso: “Che c’è al cuore stesso della pace? Una frontiera. Quando due popoli vicini fanno pace, si accordano prima di ogni altra cosa su un confine tra loro”. Ricorda al contempo un altro modo ancora di vedere il problema, il punto di vista di Golda Meir che diceva: “Le frontiere sono là dove si trovano gli ebrei, non là dove c’è una linea disegnata sulla carta”. Quando non ci sono frontiere, si innalzano muri. Israele l’ha fatto. Un muro non è una frontiera, bensì una barriera, un respingimento, un’esclusione. Nel muro non vi sono porte né finestre. Soltanto cemento e odio. Paura e ignoranza.

È interessante leggere questo manifesto che va controcorrente nel momento stesso in cui, grazie alle nuove tecnologie dell’informazione, abbiamo l’illusione di essere ovunque, siamo in collegamento diretto con il pianeta intero, sappiamo in tempo reale che cosa accade tra Corea del Nord e Corea del Sud, ciò che rende Haiti un’isola maledetta da Dio e dagli uomini, se il nostro amico lontano è felice o malato e così via. Essere connessi, però, non vuol dire che le frontiere sono state abolite; né che esista complicità tra i popoli. Tutto ciò resta a livello di semplice giochetto. Fa piacere restare in contatto con un amico di cui si erano perse le tracce, ma in definitiva tra lui e noi ci sono dei confini. Come dice Paul Valéry, “Quel che c’è di più profondo nell’uomo è la pelle”. La pelle, infatti, è proprio ciò che racchiude il nostro corpo, che ci separa dagli altri. E, come si dice comunemente, tutti noi teniamo alla nostra pelle.

Quando non si conoscono i propri limiti, non si sa più chi si è. È una questione di identità. Un popolo la cui identità è indistinta, non radicata nella terra di un Paese, è un popolo sventurato. Sapere chi si è, da dove si proviene, in quale ambiente si è vissuto e dove si è andata costruendo la propria storia è fondamentale per poter vivere con gli altri. Un popolo – come il popolo algerino – che è stato colonizzato per 5 secoli dagli ottomani, poi occupato per 130 anni dalla Francia e in seguito ha combattuto una guerra eroica di liberazione con oltre un milione di morti, fa fatica a riscoprire la propria identità. Questo potrebbe spiegare il persistere dei movimenti terroristici che prendono a pretesto l’Islam. L’Algeria è in procinto di recuperare la propria identità, ma mantiene chiuse le proprie frontiere con il vicino Marocco. In questo caso si tratta di un eccesso di frontiere, il che equivale a un rifiuto a comunicare, a risolvere i conflitti rimasti in sospeso tra i due Paesi.

Questo elogio delle frontiere si presenta come un diritto dei popoli. Dopo tutto, se la frontiera è ciò che garantisce la loro integrità territoriale, occorre difenderla non come una linea di ripiegamento, bensì come una possibilità di apertura, sapendo che ogni singolo individuo è un invitato, non un invasore, né un contrabbandiere.

traduzione di Anna Bissanti

Canzone – Jovanotti

“Il muratore” : https://www.youtube.com/watch?v=AfrlsDcw0rw

Mappa interrattiva sulla costruzione di nuovi muri

http://www.rferl.org/contentinfographics/fencing-off-europe/27562610.html

Galleria fotografica

www.raistoria.rai.it/gallery-refresh/muriun-mondo-diviso

Video- “Muri. Un mondo diviso”

http://www.raistoria.rai.it/embed/muri-un-mondo-diviso/31888/default.aspx”

Video di  RAI STORIA del 9 dicembre 2015

Il  9 novembre 1989 la caduta del muro di Berlino, simbolo della guerra fredda, fece nascere la speranza che fosse caduta l’ultima barriera verso la libertà. Negli anni successivi la spinta verso la globalizzazione, il progresso tecnologico, così come l’unificazione dell’Unione Europea,  alimentarono l’illusione di un mondo senza più frontiere.

Eppure, da allora, i muri non hanno cessato di moltiplicarsi, ovunque nel mondo. Muri di filo spinato, di cemento ma anche di roccia e sabbia che rispondono a logiche antiche e nuove:  separano popoli in lotta, come in Israele o a Cipro; creano  barriere fisiche tra ricchi e poveri, come a Rio de Janeiro e a Lima; bloccano i migranti e difendono i confini  in nome della “sicurezza nazionale”, come nell’enclave spagnola di Melilla, l’ultima frontiera dell’Europa.

Un lungo viaggio, condotto dallo storico Carlo Greppi,  lungo 10 000 km di muri che ancora oggi dividono il mondo.

Muri. Un mondo diviso, di Francesco Cirafici, Davide Savelli e di Sara Chiaretti, Fabrizio Marini

 

Con Aldo Agosti, Aldo Bonomi, Gianluca Falanga e Silvia Salvatici]

Dalla Cisgiordania al Messico: così il mondo riscopre i Muri

A 25 anni dalla fine della Guerra Fredda sono sempre di più le barriere erette per difesa o per frenare l’immigrazione clandestina. L’ultima al canale di Suez

03/06/2014

FRANCESCA PACI

La priorità degli egiziani oggi è la sicurezza. L’elezione di Sisi alla carica che fu di Mubarak e di Morsi sta lì a dimostrarlo. Garantire quella stabilità che possa far recuperare al Paese il terreno perduto in questi tre anni è la sfida del nuovo governo, una sfida multipla di cui il Sinai infiltrato di jihadisti rappresenta uno dei fronti più caldi. Alla luce di questo scenario va letto il progetto per la costruzione di un muro di 320 chilometri per proteggere dal terrorismo il Canale di Suez, uno dei principali asset nazionali. I cantieri, prossimi all’apertura, dovrebbero ultimare nel giro di 8 mesi la barriera alta dai 4 ai 6 metri, sovrastata da filo spinato e sensori notturni ed eretta sui due lati del corso d’acqua artificiale scavato nel XIX secolo per collegare il Mediterraneo col Mar Rosso. Costo previsto: 200 milioni di dollari.

 

Nel venticinquesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, il terremoto geopolitico del 1989 che avrebbe dovuto seppellire sotto le macerie della Guerra Fredda l’era dei muri (e secondo l’economista Francis Fukuyama anche la Storia), sembra essere tornata in voga l’antica vocazione alla separazione difensiva tra nemici. Se l’Egitto vuole tutelare le navi in transito nel Canale di Suez dai lanciarazzi del gruppo qaedista Ansar Beit al Magdis (autore di numerosi attentati contro le forze di sicurezza del Cairo costate la vita a 500 persone in un anno), altri paesi, dalla Grecia alla Bulgaria, hanno adottato e stanno adottando la medesima linea difensiva contro altre minacce.

 

Fino a pochi anni fa infatti, dicevi Muro e pensavi automaticamente ai circa 700 chilometri di cemento e reticolato costruiti nel 2002 da Israele lungo il confine con i territori palestinesi occupati di Cisgiordania. Un serpentone ben visibile da ambo i lati, definito dagli israeliani “barriera difensiva dai kamikaze della seconda intifada” e dai palestinesi “muro del nuovo apartheid”. Quel muro ha acceso dibattiti infiniti che hanno visto sul fronte dei critici le maggiori organizzazioni umanitarie internazionali e artisti come l’iconosclasta Banksy (anche il quasi ex presidente israeliano Simon Peres è sempre stato scettico) e sul fronte opposto grandi intellettuali israeliani pacifisti come Abraham Yehoushua, tra i primi sostenitori della necessità di una separazione fisica tra israeliani e palestinesi per dare ai primi sicurezza e ai secondi la piena sovranità su un territorio ben definito (a favore del muro si è espresso in passato Elie Wiesel mentre lo scrittore David Grossman è contrario). Il punto però è che quel dibattito appare decisamente superato (Israele ne sta costruendo anche un altro di 250 km lungo il confine con il Sinai egiziano) alla luce dei nuovi muri come quello che “protegge” le enclave spagnole di Ceuta e Melilla dal Marocco e soprattutto degli immigrati che dal Marocco vorrebbero sbarcare sulle due isole alla volta dell’Europa.

 

Chi è stato almeno una volta a Ceuta e/o Melilla non se ne dimentica. C’è un braccio di mare strettissimo (la costa marocchina è visibile dall’altra parte) illuminato a giorno anche di notte e presidiato da sensori, barriere elettriche lunghe 8 km a Ceuta e 12 km a Melilla e alte 6 metri, mezzi militari, controlli e check point di standard più che israeliani (ricordano il blindatissimo valico di Erez da cui si accede a Gaza). Il “Muro” di Ceuta e Melilla è stato costruito nel 2005 al costo di 30 milioni di euro per fermare l’accesso all’Europa di immigrazione clandestina e contrabbando (nel 2005 molti migranti morirono sotto i colpi della polizia marocchina nel tentativo di forzare i blocchi ma gli incidenti si ripetono di continuo).

 

Ma non finisce qui. Un anno e mezzo fa, di fronte al trasformarsi della guerra civile siriana in un esodo di disperati in fuga dalla mattanza, la Grecia, a sua volta nel pieno di un tsunami economico, ha ultimato la costruzione di una barriera lunga 10 km e alta 4 metri al confine con la Turchia accessoriata di filo spinato e tecnologie super moderne al prezzo totale di 3 milioni di euro per bloccare gli immigrati irregolari in arrivo attraverso il fiume Evros dalla Siria ma anche dall’Africa e dall’Asia (oltre 100 mila erano stati arrestati lungo quella frontiera nel 2011). Grossomodo nello stesso periodo si è allineata la Bulgaria che al costo di 2,5 milioni di euro ha tirato su un muro di 3 metri lungo 33 dei 274 chilometri del confine bulgaro-turco da cui entrano l’85% dei rifugiati siriani (la Bulgaria ne ospita circa 10 mila). Anche la Turchia, inizialmente il maggior hub della resistenza siriana (armata e non) comincia a cautelarsi e alcuni mesi ha deciso di eirigere un muro di 2 metri nel distretto di Nusaybin, un piccolo tratto dei 900 km di confine con la Siria.

 

Dall’altra parte del mondo c’è poi ovviamente la barriera tra Stati Uniti e Messico, il Muro di Tijuana avviato nel 1994 e ultimato nel 2012 al costo di 6 miliardi di dollari (ma c’è chi dice molto di più, fino a 30 miliardi di dollari), uno dei confini più presidiati del mondo nonostante le difficoltà poste da oltre 3000 km di frontiera. E se non ancora muri veri e propri, ci sono tentazioni “murarie” negli Emirati Arabi Uniti, tra l’Arabia Saudita e lo Yemen, il Botswana e lo Zimbabwe, la Cina e la Corea del Nord.

 

Un paio d’anni fa fece molto discutere un libro dell’intellettuale francese, già amico di Che Guevara, Regis Debray intitolato “Eloge des frontieres”, in cui l’autore invitava a riscoprire le frontiere in funzione anti-muri. La tesi era più o meno lo smantellamento dell’illusione di un mondo che “senza frontiere” sarebbe felice e cancellerebbe ogni diversità: “Viviamo una situazione schizofrenica. Da un lato si fa l’ elogio dell’universalità e della globalizzazione che trascendono i confini, dall’ altro, dal 1990 ad oggi, abbiamo creato 29.000 chilometri di nuove frontiere, ai quali vanno aggiunti 18.000 chilometri di barriere elettroniche in costruzione. Quasi tutte le guerre in corso nascono da problemi territoriali e la questione della frontiera è cruciale perfino in Europa, come dimostra la crisi del Belgio. Insomma, tra il discorso dominante, pieno di buoni propositi e ideologie nascoste, e la realtà concreta, la distanza è sempre più grande. Per questo, è urgente ripensare senza paure e senza tabù la problematica della frontiera, una problematica che in passato è stata spesso connotata negativamente rimossa”. Nel mondo che abolisce l’idea di frontiera, sostiene Debray, viene meno l’antitesi dentro/fuori e va in crisi l’idea di identità con il risultato che, spesso, s’innalzano i muri. Con buona pace della fine della Storia.

John de Crèvecoeur, Letters of an American Farmer (1782)

What is an American?

 

John de Crèvecoeur was an 18th-century Frenchman who settled for some time in America, after travelling extensively and living in England and Canada. He was a follower of the French philosopher Jean-Jacques Rousseau and of the Enlightenment; as such, he was enthusiastic about democracy, individual rights and progress, and he believed all these were to be found in America.

 

READING AND SPEAKING

1 From what different parts of Europe did Americans originally come?

2 How did the poor of Europe become citizens of America? What was the difference from their country of origin?

3 What is the American, for Crèvecoeur?

4 Why are Americans “the western pilgrims”?

5 Do you think, in the light of America’s subsequent history, that Crèvecoeur’s opinion has proved true?

THE WRITER AND HIS WORK

John de Crèvecoeur (1731-1809 or 1813) was born in Normandy, France, but he completed his education in England and sailed for America in 1754. There he bought an estate near New York, and married the daughter of an American merchant. During the wars of the American Revolution his farm was frequently attacked, and he left America reaching France in 1782. About this time he introduced the culture of the American potato into Normandy. He wrote Letters of an American Farmer in English originally, and only later translated them into French. It is a work in three volumes, giving a description of the United States and Canada. Its praise of the American climate, crops, living conditions was so enthusiastic that more than fi ve hundred families left France on the faith of Crèvecoeur’s statements, and settled in Ohio. Most of them, however, soon died of hardship.

The myth of America

As soon as America existed in the minds of Europeans, it was a myth. Its ‘discovery’ immediately set off a series of travel reports that described it as a land of plenty and abundance.

Richard Eden’s West India (1555) offers exactly such a view of the Caribbean Islands and its people: they live in peace, with no need of laws, have no arms and police forces, no money, fences or dividing walls.

A world not unlike the ideal one imagined by Thomas More in Utopia (1516). Like all myths, however, this one too has its anti-myth: the reality of the Europeans’ taking possession of the land was one of ruthless exploitation of natural resources and of cruelty to and extermination of the natives – as the history of colonialism shows.

An emigrant’s dream

The paradox of America is that, while its original inhabitants were being exterminated and driven out of their lands, millions of poor and desperate people from Europe took their place – they too had been driven out of their homelands. For centuries, from the beginning of the 17th to the early 20th century, the American myth kept attracting emigrants worldwide. The myth took the form of a continually shifting frontier: “Go West, young man!” was the rallying cry of the pioneers who in the 19th century settled America from the East Coast to California. When California was finally reached, the dream took other forms: in the 1950s and 1960s the new frontier was the conquest of outer space

and landing on the Moon. When President J.F. Kennedy was elected in 1961, his programme of social reforms, equality and the end of racial discrimination was hailed by many as ‘the new frontier’. In this spirit, the American poet Robert Frost read out his poem The Gift Outright (1941, 1961) at John Fitzgerald Kennedy’s inauguration  ceremony as President of the United States, celebrating the union of the land and its people.

Young people across the USA

After World War II, however, and especially in the 1960s and 1970s, the American dream came to be severely questioned, especially by young people. They thought the American way of life had become too materialistic and they strongly opposed the consumer society. Instead of settling down to a steady job and family life, American youths began to travel across the country searching for America’s true meaning. They hitchhiked their way across the USA, or took trips on Greyhound buses (a regular feature of American films on the road). Paul Simon’s song America (1968) was typical of the times, describing two lovers on a trip from Michigan to New York which is both real and symbolic of their restlessness and lack of direction.

The dark side of the myth

By the end of the 20th century,

the myth looked threadbare. The United States and Canada were still prosperous nations, but immigration had been severely restricted and today America is not the emigrant’s dream as it was for centuries. A lack of enthusiasm and loss of ideals have taken the place of the old optimism and faith in the country’s unlimited possibilities. This is well exemplified by Robert Altman’s fi lm Short Cuts (1993), based on some short stories by the American writer Raymond Carver. In Short Cuts, the lives of several people in Los Angeles coming from different backgrounds are briefl y shown over a weekend: they are meaningless, void of love and affection.

STUDY QUESTIONS

1 When did the myth of America begin and what forms did it take?

2 How was the idea of the frontier central to the development of America? Give examples.

3 In the 1960s and 1970s young people questioned the American way of life: briefly explain how.

4 When did the American dream exhaust itself? Give examples.

Baricco, Novecento- Monologo finale 

https://www.youtube.com/watch?v=KfbdIODxr-I

Canzone- F. De Andrè 

“Fiume sand creek” : https://www.youtube.com/watch?v=PXhYK4j2d84

Cortometraggio Pixar

“La luna” : https://www.youtube.com/watch?v=JY-vSG8dAFQ

Claudio Magris, dalla Prefazione di “L’infinito viaggiare” 

Mondadori, Milano 2005.

Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte. Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte. In Verde acqua Marisa Madieri, ripercorrendo la storia dell’esodo degli italiani da Fiume dopo la Seconda guerra mondiale, nel momento della riscossa slava che li costringe ad andarsene, scopre le origini in parte anche slave della sua famiglia in quel momento vessata dagli slavi in quanto italiana, scopre cioè di appartenere anche a quel mondo da cui si sentiva minacciata, che è, almeno parzialmente, pure il suo.

Quando ero un bambino e andavo a passeggiare sul Carso, a Trieste, la frontiera che vedevo, vicinissima, era invalicabile, – almeno sino alla rottura fra Tito e Stalin e alla normalizzazione dei rapporti fra Italia e Jugoslavia – perché era la Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due. Dietro quella frontiera c’erano insieme l’ignoto e il noto. L’ignoto, perché là cominciava l’inaccessibile, sconosciuto, minaccioso impero di Stalin, il mondo dell’Est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato. Il noto, perché quelle terre, annesse dalla Jugoslavia alla fine della guerra, avevano fatto parte dell’Italia; ci ero stato più volte, erano un elemento della mia esistenza. Una stessa realtà era insieme misteriosa e familiare; quando ci sono tornato per la prima volta, è stato contemporaneamente un viaggio nel noto e nell’ignoto. Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti. Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo.

Claudio Magris è nato a Trieste nel 1939. Saggista, studioso della cultura mitteleuropea e della letteratura del “mito asburgico”, è anche autore di testi narrativi e teatrali.

  1. Comprensione del  testo
    Dopo un’attenta lettura, riassumi il contenuto del testo.
  2. Analisi del testo 
    1. 2.1.  Soffermati sugli aspetti formali (lingua, lessico, ecc.) del testo.
    2. 2.2.  Soffermati sull’idea di frontiera espressa nel testo.
    3. 2.3.  Soffermati sull’idea di viaggio espressa nel testo.
    4. 2.4.  Spiega l’espressione “si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo”.
    5. 2.5.  Esponi le tue osservazioni in un commento personale di sufficiente ampiezza.
  3. Interpretazione complessiva e approfondimenti 

Proponi una interpretazione complessiva del testo proposto, facendo riferimento ad altri testi di Magris e/o di altri autori del Novecento. Puoi fare riferimento anche a tue esperienze personali.

Utopia e disincanto
di Claudio Magris
(Stralcio del primo saggio in “Utopia e disincanto. Storie speranze illusioni del moderno”, Garzanti, 1990)

Nel Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere Leopardi mostra la struggente vanità di attendere, alla fine di ogni anno, un anno più felice di quelli passati, anch’essi attesi ogni volta nella fiducia che avrebbero arrecato una felicità che invece non hanno mai portato. Quel breve testo immortale del grande poeta italiano, così inesorabile nella diagnosi del male di vivere, è tuttavia esente dal facile pessimismo apocalittico di tanti retori odierni, compiaciuti di annunciare continuamente disastri e di proclamare che la vita è solo vuoto, errore e orrore. Il dialogo leopardiano è invece pervaso da un timido amore per la vita e da una ritrosa attesa di felicità, che vengono sentiti dal succedersi degli anni ma continuano a vivere, con timore e tremore, nell’animo e fanno sentire il dolore e l’assurdità tanto più fortemente del pathos catastrofico.

Quei pensieri e quello sgomento dinanzi alla svolta dell’anno si affacciano con ben maggiore intensità quando a finire – e rispettivamente a iniziare – non è solo un anno e nemmeno un secolo, bensì un millennio. Il calendario sbandiera un’inflazione di anniversari e ricorrenze, dal giubileo millenario dell’Austria al bicentenario del Tricolore italiano al fatidico esordio del Duemila – simboliche svolte epocali, grandi Archi di Trionfo del Tempo, spettacolari scenografie del Progresso e della Caducità. Alla vigilia del Mille c’erano alcuni – ma meno numerosi di quanto spesso si ami credere – che aspettavano la fine del mondo; nei momenti più bui della guerra fredda si temeva l’apocalissi nucleare, l’incubo del day after. Alle soglie del Duemila non c’è alcun pathos della fine, ma certamente il senso profondo di una trasformazione radicale della civiltà e dell’umanità stessa e dunque il senso di un’indiscutibile fine non del mondo bensì di un secolare modo di viverlo, di concepirlo e di amministrarlo. Già negli ultimi anni del secolo scorso, Nietzsche e Dostoevskij avevano intravisto l’avvento di un nuovo tipo d’uomo, di uno stadio antropologico diverso – nel modo di essere e di sentire – dall’individuo tradizionale, esistente da tempo immemorabile. Nel suo Übermensch Nietzsche non vedeva un «Superuomo», un individuo potenziato nelle sue capacità e più dotato degli altri, bensì, secondo la definizione di Gianni Vattimo, un «Oltre-uomo», una nuova forma dell’Io, non più compatto e unitario bensì costituito, com’egli diceva, da un’«anarchia di atomi», da una molteplicità di nuclei psichici e di pulsioni non più imprigionate nella rigida corazza dell’individualità e della coscienza. Oggi la realtà, sempre più «virtuale», è lo scenario di questa possibile mutazione dell’Io.

Nietzsche stesso diceva che il suo «Oltre-uomo» era strettamente affine all’«Uomo del sottosuolo» di Dostoevskij. Entrambi gli scrittori scorgevano infatti nel loro tempo e nel futuro – un futuro che in parte è ancora tale pure per noi, ma in parte è già il nostro presente – l’avvento del nichilismo, la fine dei valori e dei sistemi di valori, con la differenza che per Nietzsche, come ricorda Vittorio Strada, si trattava di una liberazione da festeggiare e per Dostoevskij di una malattia da combattere. Nell’inizio di millennio che è alle porte, molto dipenderà dalla scelta che la nostra civiltà farà tra queste due posizioni: se combatterà il nichilismo o lo porterà alle estreme conseguenze.

«Il vecchio secolo non è finito bene», scrive Eric J. Hobsbawm nel suo Secolo breve, aggiungendo che esso, per usare l’espressione di Eliot, finisce con una reboante esplosione e con un fastidioso piagnisteo.
Altri vedono in questi cento anni soprattutto la terribilità – il «terribile secolo Ventesimo», il suo primato di ecatombi e di stermini, operati con una mostruosa simbiosi di barbarie e razionalità scientifica. Sarebbe tuttavia ingiusto dimenticare o sottovalutare gli enormi progressi compiuti nel secolo, che ha visto non soltanto masse sempre più vaste di uomini raggiungere condizioni umane di vita, ma anche un continuo estendersi dei diritti di categorie emarginate o ignorate e una presa di coscienza sempre più vasta della dignità di tutti gli uomini, presente anche là dove sino a ieri non si sapeva o non si voleva riconoscerle, anche nelle forme di vita e di civiltà più diverse dai nostri modelli.

E’ delittuoso dimenticare le atrocità del secolo di Auschwitz, ma non è lecito scordare le atrocità commesse nei secoli passati senza che la coscienza collettiva se ne accorgesse e ne avesse rimorso. Credere fiduciosamente nel progresso, come i positivisti dell’Ottocento, è divenuto ridicolo, ma altrettanto ottuse sono l’idealizzazione nostalgica del passato e la magniloquente enfasi catastrofica. Le nebbie del futuro che incombe richiedono uno sguardo reso, nella sua inevitabile miopia, un po’ meno miope dall’umiltà e dall’autoironia.

Quest’ultime mettono in guardia dalla tentazione di abbandonarsi al pathos delle profezie e delle formule epocali, che fanno presto a diventare comiche, come la famosa frase secondo la quale nel 1989 sarebbe finita la Storia, frase che già allora poteva trovar posto solo nello Sciocchezzaio di Flaubert. L’Ottantanove, all’opposto, ha scongelato la Storia rimasta per decenni in frigorifero e questa si è scatenata, in un groviglio di emancipazione e regressione, spesso unite come le facce di una medaglia. Il principio di autodeterminazione, che afferma la libertà, scatena conflitti sanguinosi che conculcano la libertà altrui; un altro esempio del corto-circuito di progresso e regresso è costituito dall’incremento economico e dallo sviluppo della produzione che provocano una diminuzione di occupazione, accrescendo il numero di coloro che sono esclusi da un tenore accettabile di vita e creando quindi le premesse, ammonisce Dahrendorf, per gravissime tensioni e conflitti sociali.

La contraddizione più vistosa è quella che vede contemporaneamente processi di unificazione e aggregazione – tanto per fare un solo esempio, l’unità europea – e di atomizzazione particolaristica, come la rivendicazione di identità locali, che negano furiosamente il più ampio contesto statale, nazionale o culturale che le comprende. Al livellamento generale, prodotto specialmente dai mezzi di comunicazione che propongono su scala planetaria gli stessi modelli, si contrappongono diversità sempre più selvagge; entrambi i processi minacciano un fondamento essenziale della civiltà europea, l’individualità in senso forte e classico, inconfondibile nella sua peculiarità ma portatrice ed espressione, in essa, dell’universale.

Il millennio si annuncia con contraddizioni portate all’estremo. La sconfitta dei totalitarismi politici, in molti anche se certo non in tutti i paesi, non esclude la possibile vittoria di un totalitarismo soft e colloidale in grado di promuovere – tramite miti, riti, formule di richiamo, rappresentazioni e figure simboliche – l’autoidentificazione delle masse, facendo in modo – scrive Giorgio Negrelli negli Anni allo sbando – che «il popolo creda di volere ciò che i suoi governanti ritengono di volta in volta più opportuno». Il totalitarismo non si affida più alle fallite ideologie forti, ma alle gelatinose ideologie deboli, promosse dal potere delle comunicazioni. Una resistenza a questo totalitarismo consiste nella difesa della memoria storica, che rischia di essere cancellata e senza la quale non c’è alcun senso della pienezza e della complessità della vita. Un’altra resistenza consiste nel rifiuto del falso realismo, che scambia la facciata della realtà per la realtà intera e, privo di ogni senso religioso dell’eterno, assolutizza il presente e non crede che esso possa cambiare, considerando ingenui utopisti coloro che ritengono di poter mutare il mondo. Nell’estate dell’Ottantanove questi falsi realisti, così numerosi fra i politici, avrebbero deriso chi avesse detto che forse il muro di Berlino poteva cadere.

Il millennio sembra concludersi con la fine del mito della Rivoluzione a anche di quei grandi progetti di cambiar e il mondo che hanno caratterizzato, osserva Alberto Cavallari, il secolo scorso e gran parte del nostro.
Nel revisionismo storico sempre più diffuso, la Rivoluzione francese, sino a ieri considerata matrice della modernità e delle sue libertà, viene bollata quale madre dei totalitarismi e le sue violenze fanno sbiadire la memoria di quelle contro le quali essa è insorta; fanno dimenticare quella poesia di Victor Hugo in cui la testa tagliata di Luigi XVI rimprovera ai suoi padri, ai re di Francia del passato, di avere costruito – con le ingiustizie del dominio feudale – la «macchina orribile» che l’ha decapitata ossia la ghigliottina, che si propone di estirpare la violenza con la violenza, commettendo delitti che nulla può giustificare, ma di cui non solo essa è responsabile.

La caduta del comunismo sembra spesso trascinare con sé, in un discredito generalizzato, non solo il socialismo reale, ma anche le idee di democrazia e di progresso, l’utopia di riscatto sociale e civile; il fallimento della pretesa di porre fine una volta per tutte al male e all’ingiustizia della Storia coinvolge talora ogni concezione di solidarietà e di giustizia. Ma la fine del mito della Rivoluzione e del Grande Progetto dovrebbe invece dare più forza concreta agli ideali di giustizia che quel mito aveva espresso con potenza, ma pervertito con la loro assolutizzazione e strumentalizzazione; dovrebbe dare più pazienza e tenacia nel perseguirli e dunque più probabilità di realizzarli, in quella misura relativa, imperfetta e perfettibile che è la misura umana. La fine di quei miti può accrescere la forza di quegli ideali, proprio perché li libera dall’idolatria mitica e totalizzante che li ha irrigiditi; può far capire che le utopie rivoluzionarie sono un lievito, che da solo non basta a fare il pane, contrariamente a quanto hanno creduto molti ideologi, ma senza il quale non si fa un buon pane. Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso, per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo. Questa consapevolezza è l’ingresso dell’umanità nella maturità spirituale, in quella maggiore età della Ragione che Kant aveva intravisto nell’Illuminismo.

La fine e l’inizio di millennio hanno bisogno di utopia unita a disincanto. Il destino di ogni uomo, e della Storia stessa, assomiglia a quello di Mosè, che non raggiunse la Terra Promessa, ma non smise di camminare nella sua direzione. Utopia significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere; sapere che il mondo, come dice un verso di Brecht, ha bisogno di essere cambiato e riscattato. Il risveglio religioso, che pure così spesso degenera nei fondamentalismi, ha la grande funzione di ridestare il senso dell’oltre, di ricordare che la Storia profana di ciò che accade s’interseca di continuo con la Storia sacra, col grido delle vittime che chiedono un’altra Storia e che, nel Giorno del Giudizio, presenteranno a Dio o allo Spirito del Mondo il libro dei conti e li chiameranno a rendere ragione del mattatoio universale.

Utopia significa non dimenticare quelle anonime vittime, i milioni periti nei secoli in violenze indicibili e scomparsi nell’oblìo, non registrati negli Annali della Storia Universale. Il fiume della Storia trascina e sommerge le piccole storie individuali, l’onda dell’oblìo le cancella dalla memoria del mondo; scrivere significa anche camminare lungo il fiume, risalire la corrente, ripescare esistenze naufragate, ritrovare relitti impigliati sulle rive e imbarcarli su una precaria Arca di Noè di carta. Questo tentativo di salvezza è utopico e l’arca forse affonderà. Ma l’utopia dà senso alla vita, perché esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso. (…)

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